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  • La festa delle Luminare: Breve reportage di una serata di Provincia.

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    agosto 9, 2015 | Posted By: | Uncategorized |

    Da qualche parte a Sud.

    Provincia. Una delle province del Sud. In questo posto, siamo stati molto più fortunati rispetto agli abitanti di Eboli. Dio, qui è arrivato in una sera di mezza estate: ha mangiato un cornetto black and white ed è andato via. Questo posto ha un nome, ma tutti lo chiamano “Il Bivio”. Ho deciso di farmi un “giro” al Bivio l’altra sera… perché questa stagione che s’identifica per il caldo, i selfie sulle spiagge, le angurie nell’acqua bollente, le zanzare e la sua velocità, spesso, altro non è che un Bivio: a sinistra la spensieratezza, a destra la malinconia di un nuovo inverno che dista solo qualche km di distanza: la speranza è che tu possa trovare un’ape piaggio sulla strada, la quale, con la sua andatura lenta, rallenti il tempo per raggiungere l’inverno. Per questo ci s’innamora d’estate. L’amore è un’ape piaggio che lentamente percorre una strada diretta verso il tempo delle piogge. Sento il bisogno di immergermi in una delle feste di provincia che si svolgono durante l’estate, e così vado al Bivio. Vicino casa mia. Per noia. La noia è fondamentale. Con me porto un amico. Perché spesso la solitudine si vive in compagnia. Non lo vedevo da tempo. Un trentacinquenne che ha vissuto sempre in bilico tra umorismo e caparbietà. Con due grandi ambizioni nella vita: offrire un aperitivo a Paolo Conte ed essere il biografo ufficiale di Alba Parietti.

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    La serata è partita. Le luminare risplendono a rischiarare la villetta comunale, dove una fontana in cemento armato resta lì, ferma. Senza acqua, senza speranza. Sulla parte superiore, una scritta sbiadita: “Rossella io e te tre metri sopra al Bivio”. Padri in pantaloncini, magliette con improbabili scritte e borselli a tracollo Luis Vuitton – originalmente contraffatti – spingono passeggini contenenti figli dormienti. Accanto a loro, mogli aggiustate a “machina i cursa” con unghie smaltate da tonalità sgargianti – in grado di rendere la vita difficile a qualsiasi discromico – passeggiano guardando il loro smartphone dallo schermo rigato, contando le notifiche di facebook dopo l’ultimo selfie postato vicino lo stand di “Tonino il mago del panino”. Vicino al Bivio… ovvero una rotatoria che porta verso altri paesi del nowhere, c’è un bar con tavoli bianchi posti fuori, e ragazze in pieno tiro, con tacco dodici colmi di strass (comprate ai saldi presso “La grande Muraglia”), vestiti di misto cotone e pelli dall’abbronzatura monocromatica… ordinano come rivoluzionarie del domani un “Manhattan”: perché si può essere “Sexy in the City” anche al Bivio. Mentre i loro accompagnatori, dal fisico palestrato, fan di Steven Segal e Vin Diesel (ne possiedono i cofanetti dei dvd), indossano maglie dalla taglia SS. Una delle ragazze dice che la faranno team manager nel call center; l’amica si trova bene a lavorare presso il centro estetico “Donatella”(si è appena fatta un tatuaggio sul piede, con scritto: “L’amore non mi basta”). Un anziano a qualche tavolo di distanza sbadiglia, tiene in mano un bastone, sandali e calzini bianchi; si ricorda di quando era un bambino nella pampa argentina (qualcuno era emigrato per lui!), fin quando, da adulto fece ritorno qui. E adesso è lì, a trascorrere qualche ora seduto con i suoi calzini bianchi che spiccano, prima di rientrare a casa; sua moglie avrà finito di guardare una puntata de “Il Segreto”; si metteranno a letto, sperando, che non faccia troppo caldo per prendere sonno. In sottofondo, fuori dal locale, la radio trasmette il Guru delle Milf di Provincia: Biagio Antonacci.

    “No signora, no! Mi piaci…

    No signora, no! Ti prego…”

    Il secondo gin tonic che bevo inizia a salire, portando con se un pò di pessimismo cosmico. Nella mia mente il sottofondo della serata è “In my secret life” di Leonard Coen. Ma fortunatamente, a distrarre i miei stati d’animo è una macchina che sfreccia a palla sulla strada, casse che pompano una Hit: nera, bassa, dai cerchi larghissimi (quasi da mezzo d’assalto, adatto per una missione di pace in Iraq), guidata da un ragazzo con un berretto che dall’aspetto potrebbe chiamarsi Cenzino. Il mio amico, si guarda attorno, è seduto accanto a me, si lascia distrarre dai discorsi di una famiglia a qualche tavolo di distanza dal nostro. La famiglia, mangiando allegramente una granita, discutono sul fatto che Il Bivio sia diventato invivibile, troppe costruzioni, troppo traffico. A quel punto, il mio amico, con uno scatto degno del migliore Nanni Moretti, si rivolge a loro dicendo: “Ma perché siete venuti a vivere a qui? Trent’anni fa, Carolei era bellissima!”. I tipi sorridono, ma non rispondo. Continuano a mangiare la loro granita.

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    Decidiamo di spostarci inoltrandoci nel sottobosco della villetta, tra le sue luminare, i suoi stand, e dove su uno spiazzale di puro (purissimo!) cemento armato è adibito un palco sul quale si sta esibendo un gruppo. La corista del gruppo indossa leggings di ecopelle. Eseguono cover degli anni passati. Appena ci avviciniamo, la cantante, presenta il prossimo brano: “Non sono una signora” di Loredana Bertè. Prima di eseguirla, rivolge un ringraziamento speciale al Comitato che ha organizzato la serata, per poi rivelare uno scoop all’intera piazza: la Bertè si è rifatta le gambe!

     “A pochi km a Sud del mio ritorno,

    del mio Buongiorno…”

    Sotto il palco, signore anziane in tappine hanno pensato bene di portarsi le sedie da casa. Bambini obesi con in mano lattine di coca-cola, corrono rompendo le palle ai passanti. Un ragazzino irriverente, punta un laser al tastierista del gruppo. Il musicista muove la testa, cercando di scansare il laser diretto negli occhi. Mamme ballano con le loro figlie piccole sotto il palco. Nel mentre, la cantante, esegue a squarcia gola il pezzo della Bertè. Lo fa ad occhi chiusi. Ripensando al passato che dista solo qualche anno di distanza. A quando cantava sulle navi da crociera: per sei mesi sempre lo stesso giro del mediterraneo. Ricorda di quando ascoltò “Non sono una Signora” vicino al porto di Marsiglia. E poi la nave andò via, e andati, sono stati amori stronzi, fuggenti, bugiardi. Ma basta tristezza, il chitarrista già avvia le prime note di “Figli delle Stelle”. Vicino lo stand del pesce, alcune casalinghe che sembrano personaggi di un film di Almodovar post franchista, mangiano una gustosa pepata di cozze a 5 euro. Sul palco, nel frattempo, è salita “Miss Moto 2015”, la ragazzina vincitrice dice: “Per me è un sogno che si realizza!”. Esatto! Il presidente del comitato la premia con una targa in latta, gentilmente offerta dalla copisteria “Copy and Colors 2000”. Ed io sono lì. Immerso in questo sottobosco. E mi sento appagato. Fra qualche settimana, l’estate finirà, la villetta tornerà ad essere vuota: solo qualche cacca di cane. Le televisioni nuovamente accese in casa: la speranza è che qualcuno possa essere ucciso in qualche paese dell’Alta Italia, e Barbara d’Urso farà dei servizi “Esclusivi” su cosa avesse mangiato la sera prima l’assassino (probabilmente una pepata di cozze a 5 euro!). Ma in tutto ciò mi sento felice. Perché avverto uno strano effetto, una strana sensazione di umanità attorno a me. I cantanti che smontano gli strumenti, il signore dello stand che pulisce la friggitrice, le signore anziane che ritornano a casa con le sedie in mano, il Presidente del comitato che dice “Abbiamo passato na bella Sirata!”. Tutto ciò per amore, solo per amore. Ecco, si, è stata proprio una bella sera! Qui, dove tutti hanno la consapevolezza che domani sarà nuovamente lunedì, e ordinano cornetti black and white… come se non ci fosse un domani.

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    Il tassista di Ponza

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    giugno 10, 2015 | Posted By: | Uncategorized |

    Una serata normale a casa di amici. Cenando e bevendo del vino rosato. Ne vai ghiotto per il rosato, ed i tuoi amici lo sanno. Tutto è nella norma della stabilità infrasettimanale. Normale sono i modi, normali, le sigarette che fumi dopo cena. Normali gli sguardi. Ti conoscono, tu conosci loro: è la tua famiglia. Fuori dal terrazzo, una canna fumaria getta fumo nero proveniente dalla pizzeria cinque piani più giù. Un vicino dalla pancia dignitosa, sul balcone, annaffia le sue piante tristi. Attraverso i vetri, vedi un’universitaria mangiare una pizza d’asporto mentre tiene un iPhone in mano. E’ una serata normale. Si potrebbe recensire così. Viviamo nel secolo delle recensioni. Ma qui si aprirebbe un dibattito troppo lungo sul concetto di critica, rappresentanza partecipativa, giudizio e moralità. Talmente vasto, da diventare pesante, imbarazzante. Puoi solo affermare che, oggi, nell’epoca in cui il qualunquismo è dilagante, la recensione online è l’unico strumento di appagamento verso l’istinto democratico dell’uomo moderno, in quanto essere sociale furtivo. Torniamo alla normalità. Stai bevendo il limoncello di fine serata, ed i tuoi amici parlano. Si parla di uno dei dieci argomenti che più ti annoia: l’argomento, sei tu! Si parla della tua vita, le tue competenze e incompetenze, treni persi, stazioni deserte. E tu sei lì, ad ascoltare. La riflessione più profonda che il tutto ti suscita è: “Ma il limoncello è finito?”. In quell’istante vorresti essere in una canzone di Luca Carboni, essere negli anni novanta, in un bar su un lungomare, con le ragazze che sghignazzano attorno, e tu solo, guardi il cameriere e dici: “Cameriere un altro caffè, per piacere, Olè!”.

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    La serata è finita. Torni verso casa, come fanno tutti. Tutti tornano verso casa, prima o poi. L’ha fatto Ulisse, lo farà il dirigente dell’Agenzia delle Entrate. E mentre torni, con una malinconia cosi bella, da averci fatto l’abitudine: come un dente storto in bocca, è li, lo hai da anni, ormai è parte di te, non sarebbe il tuo sorriso se quel dente fosse perfettamente dritto. Ci abituiamo all’imperfetto, fin quando diviene parte di noi. Ripensi, senza sapere al perché, ad un personaggio conosciuto qualche giorno prima sull’isola di Ponza.

    Eri lì per lavoro. Su quell’isola dalle case con l’intonaco sgretolato, prendi un taxi. Uno di quei taxi piccoli, capaci di inoltrarsi nelle viuzze delle isole. Il tassista ha settantasei anni. Un apparecchio acustico all’orecchio destro. Prima di partire per la corsa, si toglie la maglia sudata, e la posa su un muretto del porto, ponendo una pietra sopra per il vento. La lascia li ad asciugare. Nel frattempo ne indossa un’altra. E con la calma di chi conosce “a pacienza”, sale sul suo taxi e parte. Durante il tragitto, verso una casa in cima all’isola, questo signore dalla faccia solcata “un solco lungo il viso, come una specie di sorriso”, inizia a parlare. Un breve monologo, su strade strette ed in salita. Dice: “Sono il tassista più vecchio di Ponza, ho portato tanta gente qui. Ma non m’importa chi porto, se gente importante o meno. Tutti sono importanti. Tutti avremmo potuto essere ministri, ma molti hanno scelto di essere operai, perché hanno scelto l’onestà.” Qui capisci, che l’onestà è una scelta. E tu lo guardi, in silenzio, con ammirazione, senza minimamente pensare che l’affermazione sia retorica. I finestrini abbassati, l’aria colma di caldo e profumi mediterranei. E lui, senza rispondere ad alcuna domanda continua: “Nessuno è disposto a morire su un isola. Devi nascerci. Solo se nasci su un isola, circondato dal mare, sei disposto a morirci. E non vedi altra morte, se non qui. Perché qui sei disposto a viverci anche d’inverno. Non tutti sono disposti all’inverno. Ma noi sappiamo che l’inverno passa… perché tutto passa dintra a vita, tutto…prima o poi, passa”.

    La corsa è finita. Ti lascia lì, sulla parte più alta dell’isola. Ti porge la mano. La stringi. E vorresti abbracciarlo. Sempre con lentezza, risale sul suo taxi scassato. Riparte, nuovamente diretto verso il porto, verso quella maglia tolta prima e stesa al sole: nel frattempo, si sarà asciugata, perché quella maglia è come il suo proprietario, disposta ad aspettare. Tu resti lì fermo. Dinanzi a te la meraviglia incontaminata. Il mare laggiù riflette la luce del sole, come un pannello fotografico. Verso l’orizzonte uno yacht sul quale, forse, uomini e donne versano champagne sulle loro pelli, facendolo scorrere lento. E lente le loro bocche al gusto di Cristal e salsedine si assaporano. Se fosse un film, adesso partirebbe una canzone di Cesaria Evora. Giri lo sguardo e il taxi non c’è più, resta una strada vuota, accecata dal sole. E tu resti lì, fermo, come se avessi assaporato un ultimo sprazzo di umanità.

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     Dedicato al tassista di Ponza,

    al quale non ho chiesto il nome.

     

     

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